Sto preparando un po’ di corsa un intervento su Camus, e gli spunti contenuti nel libro da cui partirò mi lasciano un’impressione ancor più profonda del solito; mi sembrano davvero inestimabili per affrontare questi tempi a mente sgombra.
Ciò non significa stabilire paragoni indebiti, com’è ovvio. Moltissime cose sono cambiate dagli anni ’40-’50, ma lo spirito che anima queste righe resta fresco, sempreverde: benché avessi già letto tutti gli articoli in questione, mi sono apparsi nuovi in altri sensi ancora.
Innanzitutto il porsi di Camus contro i due grandi blocchi ideologici — come fecero Dagerman, Chiaromonte, Silone e pochi altri che considero i miei eroi intellettuali — non ha nulla del comodo terzismo. Anzi: Camus pagò amaramente tutte le sue scelte, proprio perché non erano frutto del capriccio opportunistico bensì obbedivano a un ideale altro: appunto il socialismo libertario.
Ora. Credo che l’aria da cani sciolti che rivendicano un po’ tutti, la loro presunta indipendenza intellettuale — ci metto dentro anche me, beninteso — sia per lo più una posa, un automatismo per tenere limpida la coscienza. Quanto invece pensiamo pensieri già pensati, ci adattiamo a schemi non più applicabili, e magari condiamo il tutto con un po’ di vittimismo proprio perché ci vediamo soli con un manipolo di valorosi contro la marea montante di idiozia?
Certo l’idiozia non manca, ma in fondo ne siamo tutti portatori sani. E il livello miserevole della nostra discussione odierna risalta ancor più se messo di fronte alle denunce di Camus — risalenti, fra l’altro, a un’epoca che è facile pensare più nobile e grandiosa, e che invece fu pervasa di meschinità quanto la presente (ma almeno aveva lui). Qual è l’ultima volta in cui avete avuto un dialogo autentico con una persona che la pensava diversamente da voi su una questione importante, senza reciproci sospetti di follia o malafede? Non dico cambiare opinione, ma anche accettare che le opinioni altrui abbiano un valore, tolte quelle aberranti, è diventato un gesto raro. In Soleil et ombre Grenier ricorda come Camus, anche nei momenti più polemici delle Actuelles, conservasse sempre il senso del dialogo: non era mai certo di avere ragione.
In particolare mi interessa come persone in ottima fede e con grandi capacità parlino soprattutto delle proprie emozioni o discutano del proprio stagno ritenendolo un oceano; e ripetano, soprattutto, idee di individui che molto semplicemente non sono all’altezza della gravità di quanto si discute. Parlo in primo luogo di stoffa umana, di qualità morale. Discutono di cose tremende come se nulla fosse, secondo un’abitudine all’irresponsabilità linguistica che in Italia viene da lontano.
Ad esempio, per restare in tema, hanno ampia voce individui che non hanno mai messo piede in Ucraina né ne hanno studiato le vicende, non parlano ucraino o russo, non hanno idea delle mostruose dinamiche materiali di una guerra, non concepiscono altro che i propri principi (spesso in forma decisamente puerile). E ritengono tali principi universalizzabili, perché di fondo sono parole mai messe davvero alla prova dei fatti; ed è tanto più facile tenere ferma una parola invece di affrontare o soccorrere le persone. Allora meglio sedersi con Malatesta: “io violerei tutti i principii del mondo pur di salvare un uomo: il che sarebbe poi infatti rispettare il principio, poiché, secondo me, tutti principii morali e sociologici si riducono a questo solo: il bene degli uomini, di tutti gli uomini”.
Così, alla rinfusa: il 1914 viene usato come indebita metafora, senza prospettiva storica, per descrivere il corrente riarmo europeo; si inneggia allo spirito guerriero come se ammazzarsi non fosse una cosa orribile bensì una virtù sepolta da decenni di pace; le voci degli ucraini vengono tacitate con un gesto pieno di inconscio colonialismo (cosa ne vogliono sapere loro?); si scambia l’esercizio del dubbio per un relativismo aggressivo, quando lo scetticismo è innanzitutto una questione di sintassi e stile (più dubitative, meno solenne assertività: più mitezza, meno pose titaniche); si procede per slogan populistici e semplificazioni, felici di giocare nel cortile d’asilo dove si è “pacifinti” da un lato e “bellicisti” dall’altro. E l’intellettuale che viene invitato a dire la propria, invece di rinunciare al privilegio perché inesperto, nemmeno cerca di studiare per combattere questa peste semantica: si concede il lusso di diffonderla.
Ciò vale per qualunque argomento che gronda dolore e viene invece trattato quale esercizio quotidiano di retorica: tanto non ci sono conseguenze di sorta, non c’è senso della misura o della decenza che tengano, a destra come a sinistra. Le varie parti dovrebbero quindi fermarsi un poco invece di reagire a ogni nuovo spunto: perché il rischio è di mandare avanti un circo deprimente e narcisistico, dove la sola questione importante — ad esempio le popolazioni oppresse, le persone che soffrono quotidianamente — tende a stare ai margini del discorso. Ripeto, anche quando il discorso è portato avanti in ottima fede.
Allora rileggiamo attentamente Camus. Rileggiamolo quando scrive che “Soffochiamo in mezzo a coloro che sono convinti di avere assolutamente ragione, tanto nelle loro macchine quanto nelle loro idee”. Rileggiamo quando parla della
immensa cospirazione del silenzio, accettata da coloro che tremano e che si regalano buone ragioni per nascondere a se stessi quel tremito e promossa da quelli che hanno interesse a farlo. «Non dovete parlare dell’epurazione degli artisti in Russia, perché questo favorirebbe la reazione». «Non dovete far parola del fatto che Franco è tenuto al potere dagli anglo-americani, perché questo avvantaggerebbe il comunismo».
(Vi ricorda niente?).
Rileggiamo la sua proposta di un “pensiero politico modesto, ovvero liberato da ogni elemento messianico, sgombro dalla nostalgia del paradiso terrestre”. Rileggiamo, e meditiamo, sul realismo che gli fa negare la possibilità di una rivoluzione in una singola nazione dato il mondo interconnesso; il non cercare una nuova ideologia bensì “uno stile di vita”, con l’idea di “lottare nella storia per preservare quella parte dell’uomo che non le appartiene”.
Rileggiamo il suo discorso La guerra e la pace del 1948, dove dice che la pace è come l’amore: si pensa di sapere cosa sia ma alla prova dei fatti non ci si mette d’accordo sulla parola. (Vi ricorda niente?).
Rileggiamo cosa scrive nel 1949, quando dire cose simili era un’enormità: “chiameremo concentrazionario quello che è concentrazionario, anche il socialismo”; “La verità di un pensiero non si stabilisce a seconda che sia di destra o di sinistra, e ancor meno per come decidono di utilizzarlo la destra e la sinistra”. Rileggiamo la sua difesa dei moti di Berlino est contro il governo nel 1953 — Stalin era ancora vivo — e la semplice domanda: “Che senso ha allora intervenire per i Rosenberg, se poi ce ne stiamo zitti davanti a Goettling?” (Che sia di monito a chi ritiene vere solo le vittime che stanno bene alla propria ideologia; a coloro per i quali un bambino palestinese vale meno di un bambino ucraino e viceversa).
Rileggiamo Camus evitando di santificarlo o usarlo come arma, ma rileggiamolo attentamente (nel terzo volume dei Carnets chiede una sola cosa sapendola quasi impossibile: “essere letto con attenzione”). E umilmente: senza credere che nelle medesime condizioni, dileggiato come fu anche dagli antichi compagni, avremo di certo il suo medesimo coraggio intellettuale. Noi? Noi che viviamo immersi in un conformismo basato sul controllo reciproco, sul terrore di dire la cosa sbagliata benché la sentiamo corretta, per non perdere quel po’ di riconoscimento sociale o quel po’ di certezza che ci è rimasta, invece di affrontare le conseguenze della libertà e dell’onestà e della solitudine; e dell’amore, persino. Rileggiamo allora Camus:
Occorre invece non permettere mai alla critica di trasformarsi in insulto, ammettere che il nostro avversario possa avere ragione e che in ogni caso le sue ragioni, anche sbagliate, possano essere disinteressate. Occorre, infine, ricostruire la nostra mentalità politica.
Che cosa significa questo, a pensarci bene? Significa che dobbiamo difendere l’intelligenza.
(14/03/25)