Nel valutare l’impatto dei commenti (aggressivi o meno) ai post e più in generale della scrittura digitale, quasi tutti si preoccupano di indagarne l’aggettivo: l’aspetto, appunto, della digitalità. Questo accade spesso per ragioni che contrappongono la presenza “virtuale” del dialogo online contro la presenza “reale” del dialogo fra corpi ravvicinati. Ci sono ottimi motivi per credere che tale dualismo sia inefficace, e io concordo. In particolare, trovo molto più interessante il fatto che gran parte della nostra comunicazione sia diventata scritta: che tale scrittura avvenga su piattaforme digitali e interconnesse è un fenomeno, da questo punto di vista, paradossalmente secondario.
Fino a non molti anni fa, l’umanità non aveva mai comunicato in massa tramite la parola scritta. Certo, c’erano le lettere: ma si trattava uno scambio essenzialmente privato e meno rapido. Personalmente trovo questo aspetto di un’importanza capitale: stiamo assistendo a una rivoluzione mai accaduta prima del nostro modo di discorrere, scambiare pareri, criticarci e insultarci. Il tutto immerso in piattaforme dalla portata immensa: sul solo Facebook è possibile dire la propria su qualsiasi cosa, ma anche leggere qualsiasi cosa, anche la più lontana dalla nostra nicchia sociale o dalle nostre idee.
Tutto questo pone una domanda che ho già sollevato in precedenza: la parola scritta è davvero adatta alla conversazione di gruppo? Sottolineo che si tratta di una domanda neutra dal punto di vista valoriale. Non comporta alcuna critica etica (o peggio moralistica) sulla natura della scrittura digitale, dei commenti, del web sociale e così via: cerca solo di valutarne l’efficacia in termini puramente strutturali. Dopotutto abbiamo assunto questo mezzo di comunicazione con straordinaria rapidità e naturalezza; e che abbia potenziato le nostre capacità di dialogo è assolutamente indubbio. Ma forse tutta questa rapidità esige ora un piccolo passo indietro, una riflessione un po’ più attenta sulla natura stessa del mezzo.
Io comincerei tale riflessione indagando l’equivoco fra oralità e scrittura digitale. Come è già stato fatto notare, molte persone scrivono sui social media o sui commenti pubblici di un post o un articolo come se le loro parole scomparissero pochi istanti dopo: fraintendono un mezzo scritto per un mezzo orale. (Da cui anche i costanti paragoni con la piazza, luogo-metafora per eccellenza dello scambio discorsivo). Questo fraintendimento è interessante per due motivi.
Primo: dal punto di vista psicologico assottiglia la distanza critica che c’è abitualmente fra la scrittura e l’emozione del momento. Non parlo solo del condividere robe imbarazzanti o farsi licenziare perché si scrive su Twitter che il proprio capo è un imbecille: parlo innanzitutto della natura dello scrivere.
Anche nei casi più elementari, ogni tipo di scrittura richiede una rielaborazione: scrivendo non “copio in parole” quello che penso, bensì lo trasformo e plasmo secondo una logica precisa. La scrittura che anima i commenti beceri di cui tanto si parla di recente, invece, assomiglia molto all’oralità. E’ rapida, non strutturata; sembra davvero la mera copia di ciò che abbiamo in testa (o nello stomaco): ed è qualcosa di nuovo.
Ancora, è bene precisare che non si tratta di un giudizio quanto di un primo tentativo di analisi. Molti commenti e molte discussioni online sono scritte seguendo argomentazioni precise; e non tutto dipende dalla scrittura quanto anche dalla sua immersione in ambienti che impongono, quasi per essenza, una risposta immediata (e possibilmente sarcastica o molto assertiva – ogni parola deve avere la forma dell’ultima parola).
Non solo: nel caso concreto bisogna anche considerare la piaga dell’analfabetismo funzionale che affligge l’Italia. (Al solito, un’educazione attenta ai modi e agli effetti della parola scritta e condivisa può fare miracoli). E magari anche il clima d’odio e rabbia intensa che respiriamo da anni.
Insomma, ci sono moltissimi elementi in gioco e limitarsi a uno solo sarebbe un grave errore. Ma l’ambiguità di questa forma scritta/orale a mio avviso permane, anche supponendo una società di individui perfettamente alfabetizzati e senza grosse tensioni sociali. Del resto la conversazione incorporea manca appunto del supporto gestuale, dell’espressività dei corpi, e del ritmo stesso cui siamo abituati quando dialoghiamo — penso innanzitutto alle pause. La parola scritta è in grado, strutturalmente, di coprire questi ruoli? Chissà: ma è l’assunto su cui si regge parte della nostra discussione online. (Che non a caso, per far fronte a questa mancanza, si ibrida sempre di più – appoggiandosi a emoticon, canzoni, immagini, eccetera).
E veniamo al secondo motivo di interesse: dal punto di vista tecnico, l’uso della scrittura come comunicazione paritaria di massa illude che tale comunicazione segua le regole dell’oralità; ovvero, che ogni parola detta, anche la più tremenda, prima o poi scompaia. Si tratta di una questione molto dibattuta, e in un certo senso è vero che “scompare”: il ritmo incessante di queste piattaforme tende a divorare più o meno qualsiasi cosa. Non scompare però dai server delle piattaforme stesse. Ha un grado di permanenza che stride con il modo in cui viene utilizzata: da questo punto di vista, ha ragione Nathan Jurgenson a focalizzare l’attenzione sui social media temporanei come Snapchat.
Ma nell’attesa di adeguare meglio tale nuova forma di scrittura alla sua dimensione orale, dovremmo ricordare che essa possiede comunque una dimensione pubblica straordinariamente più forte della frase pronunciata in un contesto simile (il famoso bar, per usare un’altra immagine-tipo). E dove c’è una dimensione pubblica, che piaccia o meno, c’è anche l’esigenza di una responsabilità.
Verba volant, scripta manent: sul web, la massima è capovolta. Gli scripta sono considerati verba, e come tali integrati nel processo di comunicazione: elementi volatili, questioni di peso relativo, intimamente privati o deresponsabilizzati a qualche livello. E invece.
(14/01/14)